Quanto guadagna la tua azienda a “farsi bella” sui social? (L’illusione di like e commenti e il peso sul tuo fatturato)
Quanto guadagna la tua azienda a “farsi bella” sui social? (L’illusione di like e commenti e il peso sul tuo fatturato)
Di recente ha fatto un certo scalpore la risposta di TheOnion, tra i maggiori magazine al mondo. In un post, sponsorizzato, ha rotto gli indugi spiegando in modo estremamente chiaro il guadagno proveniente dal tanto caro engagement sui social: nulla. Zero.
Il post, chiaramente provocatorio, invitava dunque a prendersi il tempo di cliccare sui link e visitare il sito, o fare un salto sulla home page almeno una volta la settimana.
I proventi pubblicitari e l’appeal dipendono infatti dal traffico generato e non dalla popolarità (like e share) sulle pagine social.
Un modo sui generis per sensibilizzare i lettori e salire alla ribalta delle cronache ma che può essere interessante per ragionare su un tema comune a chiunque intenda sfruttare i canali digitali per fare impresa: quanto conviene e quanto ci guadagniamo a “essere social”?
Like x Like fa zero
Negli ultimi anni, anche nel marketing digitale, siamo forse passati troppo frettolosamente da un eccesso all’altro. Venti o anche 10 anni fa tutto era studiato per portare un risultato o almeno provarci. Copy a risposta diretta, post 100% commerciali, bella e pura pubblicità che doveva offrire al lettore (o visualizzatore) solo due opzioni: compro o non compro.
Poi è “arrivato” il permission marketing, l’inbound marketing e si è affermata, ed è anche un bene, l’idea che la comunicazione avrebbe dovuto informare, “nutrire”, divertire e intrattenere.
Al ritmo di “le persone quando tenti di vendergli qualcosa” si è andati tutti verso una forma di comunicazione quasi disinteressata, con uno squilibrio verso la reputation e la brand awareness. In altre parole: farsi vedere, diventare familiari, creare empatia e fiducia e quando sarà il momento di comprare…allora verranno.
Un discorso che non è totalmente campato per aria, anzi, ma che mal interpretato può portare, e in alcuni casi lo ha fatto, ad una comunicazione slegata dalla realtà, dagli obiettivi, dallo scopo di ogni impresa. Scopo che, inutile nascondersi, è produrre utili e dunque vendere.
Nascono probabilmente così messaggi sullo stile di Ceres o Taffo, replicati con meno originalità, che portano quasi sempre un unico risultato: social media manager galvanizzato, direttore vendite (o proprietà) devastati nel morale.
Un esempio molto celebre e che spiega perfettamente la situazione è un recente esperimento di Solve, agenzia pubblicitaria.
Incredibile ma vero: Nessun suono. Nessuna animazione. Nessun movimento. Solo quattro minuti di puro vuoto. Oltre 1000.000 visualizzazioni…aumento di fatturato chiaramente zero…morale: non farti ingannare dalle Vanity Metrics
La domanda si genera o si intercetta?
Dietro tutto questo si cela una riflessione più interessante, la domanda si genera o si intercetta? Tempo fa le due filosofie di pensiero erano impersonificate chiaramente dai due grandi player: Google e Facebook.
Google, pensiamo alla seo e la search, permette di intercettare coloro che stanno esprimendo chiaramente un bisogno (stanno cercando qualcosa) e dunque sono pronti a comprare o potenzialmente pronti a comprare. È dunque il regno ideale in cui intercettare la domanda.
Facebook di contro, come anche altri social, è invece il luogo ideale nel quale lanciare messaggi che potrebbero essere colti, sollevare e risvegliare un desiderio o bisogno latente.
Per la serie: nessuno sta cercando una vacanza ma se qualcuno si imbatte in una crociera esotica a buon prezzo…potrebbe anche essere interessato.
Oggi la distinzione non è più così netta. La capacità di profilazione, targeting e retargeting, fanno sì che in entrambi i casi sia possibile lavorare tanto sulla generazione che sull’intercettazione della domanda. A patto però, ancora una volta, di avere chiari alcuni concetti:
- Chi è il tuo interlocutore
- Chi sei tu
- Qual è il tuo obiettivo
L’equivoco dell’inbound marketing
Ma la cosa più importante è comprendere, per bene, che l’inbound marketing non è starsene con le mani in mano, sperare che qualcuno arrivi o confidare che le persone apprezzino la tua comunicazione a tal punto da premiarti sempre. Perché ad essere sinceri non succede.
Per comprendere basta dare un’occhiata ai numeri: il 90% degli utenti non è certo della marca che acquisterà nel momento in cui comincia una ricerca sul web. (Fonte Google).
Questo nonostante abbia visto, rivisto e forse anche apprezzato, spot e contenuti social (o su altri media).
Il che porta ad affermare che l’immediatezza, la rilevanza, vince spesso anche sulla lealtà o sulla potenza della marca.
Di che marketing c’è dunque bisogno?
Il consiglio migliore che si può dare è quello di abbandonare le tanto e confortanti etichette. Di smetterla di inseguire tattiche che possono sembrare in voga e puntare invece su una vera strategia. Tenendo a mente semplici concetti:
- Non tartassare le persone con pubblicità invadente e inopportuna
- Educare, divertire, intrattenere (perché le persone vogliono anche questo)
- Sfruttare ogni interazione per conoscere il proprio pubblico
- Comprendere dunque le aspettative delle persone
- Rispondere alle aspettative nei momenti che contano
- Essere rilevanti
- Raggiungere gli obiettivi predeterminati
Tradotto in poche parole si potrebbe dire: essere sociali, non social.
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